icerbox Schwartz comune by Unknown

autore:Unknown
Format: epub

Le bandierine colorate e gli ingrandimenti delle nostre fotografie tremolavano al vento, e sulle mani impegnate a salutare danzavano marionette fatte a nostra immagine. Bandiere, palloncini, cani con nastri intorno al collo, vecchie che cuocevano yakitori ai ferri, contadini con pantaloni pesanti e cappelli di paglia tondi, scolari in divisa blu scuro, file di veterani in uniforme, in carrozzella, con le medaglie di guerra che brillavano sul petto, le teste chine sopra i resti coperti di stoffa dei loro arti amputati. I cavalli svoltarono in una nuova strada, e la carrozza li seguì ubbidiente. Le folle dietro il cordone di polizia svoltarono con noi, sempre al nostro fianco, mentre il fiume scorreva infinito. Noi sorridevamo e salutavamo, com’era nostro dovere fare.

Tra la folla alla nostra destra c’era una madre che teneva una bambina, vestita come un fiore di ciliegio, alta sopra la testa, con le gambette corte e storte che scalciavano, in modo che Sua Altezza potesse vederla. Mio marito, sempre diligente, salutò e sorrise.

Il suo volto ormai era una maschera. Anche il mio lo era: la sentivo che spingeva, scura e pesante, sugli zigomi e sul naso, per tenere insieme il sorriso allenato e gli occhi spalancati, creando un’immagine di me al cospetto del mondo e di me stessa.

Sempre avanti. La processione durò moltissimo. Era un avvenimento storico, ogni istante era pensato per i posteri, anche se noi eravamo ancora vivi. E così la vita che avevo vissuto fino a quel momento cominciava a scomparire dal mondo.

Fu allora, nell’ultima parte del nostro percorso, che guardando in mezzo alla folla e aspettandomi di vedere solo il vasto volto inespressivo della massa mi capitò di posare lo sguardo su un vecchio amico che apparteneva alla mia vita precedente. Erano anni che non vedevo Kenji Kuroda, il fratello di Miko. Ora era un giovane vestito in modo incongruo per quel sole di inizio aprile: giaccone invernale con tanto di cappuccio di cotone imbottito ad avvolgergli bene la testa, come un pulcino quasi implume appena caduto da un albero. Il cappuccio era un tentativo, dovevo supporre, di tenere nascosto il suo viso liscio e spelacchiato, a cui mancavano un orecchio e vari strati di pelle. Quel volto, che somigliava in modo inquietante all’immagine mentale che conservavo, era privo dei necessari strati di protezione che permettevano a un uomo normale di passare ore fra tanti estranei (tra le loro malattie, i loro sguardi curiosi) per intravedere anche solo per un istante la coppia imperiale, il Principe e la Principessa Ereditari – soprattutto quest’ultima, una cara amica di sua sorella, la ragazzina un tempo ossessionata da Misora Hibari alla quale una volta aveva donato, senza spiegazioni, una peonia bianca trovata chissà dove.

Dalle lettere di Miko sapevo che Kenji faceva il pittore. Viveva ancora a casa dei suoi, e si avventurava fuori di rado. Si era conquistato una posizione in prima fila, a un angolo di strada, avvolto nel suo giaccone imbottito come un fascio di grano nel furoshiki di un contadino, con le spalle strette coraggiosamente addossate al cordone di polizia.

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